Accollarsi
Fare accoglienza per persone con dipendenza:
il ruolo dell’operatore e gli obiettivi della terapia
di Antonio Bufano
Accollarsi è un bella espressione, di una fisicità straordinaria.
Accollarsi qualcuno implica il prendersi cura di una persona in modo totale e totalizzante.
Fare accoglienza per progetti terapeutici diurni significa accogliere la domanda di aiuto liberandola da ogni rischio confusivo e farla crescere verso direzioni costruttive.
Il soggetto dipendente è una persona tendenzialmente sensibile, che ha accumulato frustrazioni mascherandosi, strutturando le relazioni in modo manipolatorio scegliendo e subendo quotidianamente l’isolamento.
Ogni percorso di accoglienza deve essere congruentemente breve e deve prevedere di poter sviluppare una motivazione non solo a smettere, ma a curarsi ed imparare ad auto-curarsi in modi sani.
Per noi il primo incontro con la persona ha un grande significato e deve già attivare una prima modificazione delle abitudini additive, al di là del luogo dove avverrà la terapia.
Non riusciamo a pensare alla nostra posizione migliore se non in senso orientativo, aprendo la mente del nostro paziente a più possibilità terapeutiche.
IL PROFILO COMPETENTE DELL’OPERATORE
L’Operatore addetto all’accoglienza è una figura di altissima professionalità, che integra più saperi e competenze.
Prima di tutto deve avere una autentica passione per il lavoro di aiuto con persone altamente problematiche, in quanto opera in quella fascia grigia dove la motivazione a smettere è ancora troppo debole e poco strutturata, spesso fortemente viziata da condizioni interferenti come la detenzione o situazioni giudiziarie in atto o in maturazione, co-dipendenza affettiva, poliabuso, doppia diagnosi, cronicizzazione.
Deve interrogarsi opportunamente sull’idea di aiuto così come pensato e agito dall’utente, spesso esplicitata nell’espressione Dammi una mano e qualificabile come generica richiesta assistenziale.
Visto che persino i familiari possono riportare aspetti alterati e manipolati della situazione in atto, ed al fine di comporre il quadro familiare e personale più attendibile possibile l’Operatore che fa accoglienza deve poter contare su competenze ed esperienze in grado di aiutarlo a leggere le incongruenze nei comportamenti non verbali. Per questo riteniamo assolutamente necessario sviluppare colloqui congiunti e disgiunti con l’utente ed i familiari, nonché operare con una coppia di operatori con una specializzazione in Psicologia.
Deve possedere ottime conoscenze scientifiche e tecniche da erogare in modi facilmente assimilabili dal paziente.
Deve altresì possedere una notevole sensibilità nei riguardi delle risorse della persona e del contesto familiare, attive o attivabili, e deve saper mobilitare le energie in direzioni costruttive e sane.
Deve pertanto saper mantenere una buona posizione di autorità e saper gestire le pressioni rispetto all’entrata.
In sintesi deve saper essere essenzialmente servizio, a prescindere dalla presa in carico. L’Operatore dell’Accoglienza non è, dunque, un buttadentro, ma un orientatore di qualità.
OBIETTIVI DETERMINANTI
- Sviluppare calore e profondo interesse nella relazione di aiuto
- Accertare la managerialità della situazione (individuare chi detiene il potere e identificare l’inviante alla cura)
- Esplorare lo spettro additivo
- Valutare la carica psicopatologica (incluse le forme sub-cliniche)
- Informare sulla varietà dei programmi terapeutici possibili
- Identificare le persone/risorse utili al progetto terapeutico
- Definire la motivazione alla cura
- Testare la capacità del soggetto di aderire a un insieme coerente di regole
- Sollecitare la sperimentazione attiva di sé (astensione dai comportamenti additivi, ridefinizione dei contatti sociali)
- Agevolare l’allestimento di un ambiente familiare sano, stabile e responsivo
- Sondare la qualità delle relazioni familiari e le reti di sostegno (in particolare in riferimento al nucleo coabitante)
- Verificare la disponibilità emotiva al lavoro psicoterapeutico (livelli minimi di introspettività)
- Avviare il processo di responsabilizzazione sulla condizione problematica.
LA VALENZA UMANA ED ESISTENZIALE DELL’INCONTRO
Per chi opera con un’utenza di tale problematicità ogni incontro potrebbe essere l’ultimo, ed il primo potrebbe essere l’unico. Pertanto è bene organizzare ogni incontro in modo da proporsi nel miglior modo professionale possibile, sicché ogni incontro risulti realmente produttivo e ricco di stimoli specifici per quella persona.
Chi lavora in questi ambiti sa che è inserito all’interno di un sistema complesso dove la persona con dipendenza costruisce itinerari non lineari tra servizi operando spesso zapping confusivi, frammentandosi in più punti, sovrapposizioni di interventi.
Nel primo incontro la persona con una storia importante di abuso, con risvolti degradanti del sé, vuole sentire la netta percezione di essere accettata all’interno della struttura. Ciò risponde a un bisogno profondo di essere e di evitare a qualsiasi costo il rifiuto.
Il tossicodipendente ha vissuto per troppo tempo una quasi esistenza, mettendo su un’esibizione di ciò che non è. Si è pertanto dovuto dissociare dal suo vero sé, giungendo anche ad abusare oscenamente del proprio corpo e della sua mente.
Per noi, il primo incontro ha il prezioso valore di far provare alla persona lo stare dentro ad un lavoro su di sé allo scopo di evitare la fuga e di sviluppare il miglior investimento possibile a smettere.
Il nostro messaggio è immediatamente e inequivocabilmente:
Io ti seguirò, ovunque tu vada!
Si tratta di un messaggio importante finalizzato a evitare il senso del rifiuto e di abbandono che l’utente, in modo manipolatorio o no, può avvertire.
Ci piace non legare automaticamente e infantilmente la persona alla struttura, ma invitarlo a pensare a tutto campo al proprio percorso di cura che può svolgersi materialmente dappertutto.
Frequentemente telefoniamo agli utenti o chiediamo loro di telefonarci tra un incontro e l’altro, allo scopo di evitare l’abbandono precoce e di rinforzare l’intenzionalità e l’impegno sulla cura.
Chiediamo anche di fare qualcosa per sé, di cominciare a sperimentarsi nell’astensione dall’uso di sostanze o da altri comportamenti additivi. Ciò alimenta il senso di auto-efficacia e fornisce informazioni utili innanzitutto alla persona rispetto alle sue reali possibilità.
Qui cominciamo ad esplorare lo spettro additivo della persona nella sua reale e sconcertante ampiezza, spesso minimizzata dall’utente e poco nota ai familiari che spazia tra il gioco alle macchinette, un tabagismo importante, una dieta ipercalorica, l’abuso di caffeina, l’uso fuori prescrizione medica di psicofarmaci, birre e cannabinoidi.